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Ciò che accade a Dorian Gray nell’omonimo romanzo di Oscar Wilde rappresenta ai nostri occhi l’importanza di una integrazione fra le diverse parti di sé, che comprenda anche quelle meno desiderabili. Le vicende narrate, che non riportiamo ma che invitiamo a leggere, sono anche un simbolo di quanto possa essere arduo, ma al contempo necessario, mirare alla riconciliazione tra l’apparenza declinata come desiderabilità sociale e l’autenticità dei vissuti personali, cioè impegnarsi a ridurre la distanza tra “ciò che mostro” e “ciò che sento di essere veramente”.

Simili tematiche sono quanto mai attuali in una società che favorisce e incoraggia un processo di negazione dei limiti, delle fragilità, dei difetti e, in ultima analisi, dell’importanza degli altri – anche in termini di quanto possiamo dipenderne o esserne affettivamente legati. Un processo, questo, che cristallizza l’individuo, rendendolo impermeabile alle influenze esterne, agli imprevisti e al passare del tempo, portandolo però a smarrire il senso del proprio agire nel mondo e la possibilità di scrivere creativamente la propria storia.

Il personaggio di Dorian Gray rappresenta, per noi, un’occasione mancata: l’occasione di risolvere miti personali o familiari fatti di ideali rigidi, perfetti, che divengono più importanti di qualunque altra cosa tanto da togliere il respiro, lo spazio di manovra e la libertà di scelta.

Infatti è necessario guardare ai lati meno “funzionali” e più sofferenti di sè e degli altri e accettare di metterli in gioco nel discorso e nella relazione (senza tuttavia imporle in modo arbitrario e invadente), per avere la possibilità di crescere, ridefinirsi o anche semplicemente ricevere segnali sul proprio benessere e indicazioni riguardo alla direzione futura verso cui orientare il proprio cammino.